Maurizio Tamellini, un artista che, in cinquant’anni di dedizione alla danza, ha attraversato molte “parti” sul palcoscenico della sua vita artistica.
Ha fatto il suo ingresso nel mondo della danza professionale con il Ballet de Paris, per poi conquistare un posto tra i protagonisti del Teatro alla Scala; Tamellini ha interpretato la vita con la grazia e la disciplina che solo anni di dedizione all’impegnativo studio della danza classica possono dare.
Il suo viaggio è una rappresentazione teatrale, una continua alternanza di ruoli, di sfide, di ritorni e di addii, con un costante movimento tra l’essere interpreti e mentori, lasciando una traccia indelebile in ogni tappa del suo cammino.
Ha festeggiato da pochi mesi i 50 anni di carriera, un traguardo importante dal punto di vista artistico ma anche fondamentale per la sua testimonianza diretta di come tutto nel tempo si evolve e si trasforma.
Il tempo nella danza classica custodisce non solo il ritmo della musica e la precisione dei movimenti ma anche una tradizione che si tramanda ormai da secoli.
Cinquant’anni di carriera sono veramente un traguardo importante, quali sono stati i momenti più significativi che hanno plasmato la sua evoluzione artistica, dapprima come ballerino e successivamente nel ruolo di maestro?
Sì, decisamente un percorso lungo, il momento che ricordo come una sensazione intensa è stato nel 1974 quando vinsi una borsa di studio per l’Accademia Nazionale di Danza di Roma, dove mi dovetti trasferire dalla mia città natale, Verona. Fu decisamente un trauma, lasciare la mia famiglia in piena adolescenza mi ha segnato molto e forse proprio in quel momento capii che avrei intrapreso un viaggio di sacrifici importanti e impegnativi.
E da Roma in poi, dopo la formazione accademica, è stato un susseguirsi di teatri prestigiosi
Ricordo sempre con tanta emozione l’anno (1977) in cui venni chiamato a Parigi nella Compagnia del Ballet Classique de Paris, nel 1979 al Teatro Comunale di Firenze, sotto la direzione di Evgenij Polyakov, l’entrata al Teatro alla Scala nei primi anni Ottanta per oltre 29 anni, l’invito di Roland Petit come solista nel Ballet National de Marseille.
Insomma, il palcoscenico di compagnie prestigiose divenne il mio mondo, la mia casa e la mia famiglia (anche la moglie di Maurizio, Katia Pianucci, è un’ex ballerina della Scala, n.d.r.), dove ho potuto apprendere appieno il nesso più profondo della dedizione.
Anni e anni di studio, con tanto impegno e sacrificio, è questo che intende per “dedizione”?
Ho iniziato il mio percorso di studi nella danza all’età di 16 anni, un’età relativamente avanzata per questo tipo di disciplina. Per questo motivo, mi mancavano le fondamenta accademiche e la conoscenza approfondita del repertorio classico, che sono riuscito a padroneggiare in soli tre anni di Accademia a Roma, invece dei consueti sei. Il tempo, in un certo senso, non era dalla mia parte; tuttavia, se non avessi dedicato me stesso con “assoluta dedizione” a ciò che facevo, questa corsa contro il tempo sarebbe stata, senza dubbio, perduta.
Passare dall’essere un ballerino a un insegnante implica anche la costruzione di una nuova identità, come è avvenuto in lei questo processo?
Il maestro di danza deve trovare un equilibrio tra il proprio passato come performer e il nuovo ruolo, che richiede pazienza e capacità di ascolto.
Personalmente l’ho vissuto in modo molto costruttivo, ho arricchito costantemente la mia percezione della danza. Se ti immergi nell’insegnamento con un bagaglio tecnico e culturale, l’insegnamento sicuramente ti può portare a una nuova prospettiva e a una crescita personale.
Insegnare danza implica una grande responsabilità, si ha la responsabilità di trasmettere non solo la tecnica ma anche la passione e l’amore per l’arte. Questo richiede un approccio umile e una capacità di comunicare in modo efficace con i giovani ballerini, che è sicuramente la cosa più difficile.
Visto il divario generazionale, marcato soprattutto dalle tecnologie digitali, riscontra qualche difficoltà nell’insegnamento di una disciplina che vive da secoli?
È difficile, molto difficile, molti giovani ballerini non mostrano l’umiltà necessaria per apprendere e migliorare. L’umiltà è considerata fondamentale per ricevere correzioni e feedback, non averla ti può presentare molte difficoltà a progredire.
Sono spesso distratti dai social media, il che influisce sulla loro capacità di concentrarsi durante le lezioni.
La cultura digitale ha portato a una superficialità nell’approccio alla danza, dove l’attenzione è più rivolta all’apparenza e alla visibilità piuttosto che alla tecnica e all’espressività.
A volte, purtroppo, si ha la sensazione che non prendano la danza con serietà.
Molti vedono la danza come un’attività di intrattenimento piuttosto che come una disciplina rigorosa, il che porta a una mancanza di impegno e dedizione, e per me la sfida è trovare modi per motivare e ispirare i miei allievi.
Apprendimento lungo, impegnativo della danza versus velocità e immediatezza dell’era digitale: questo marcato contrasto crede possa trasformarsi in un binomio? In che modo questi due mondi lontani potrebbero arricchirsi a vicenda, anziché essere in conflitto?
È un dibattito ancora molto acceso; c’è chi avverte che la rappresentazione della danza nei social media può essere superficiale, perché ne riduce la complessità e la bellezza a semplici performance visive, ma c’è anche chi sostiene che hanno il potere di elevare la danza e renderla più accessibile a tutti.
Personalmente penso che, soprattutto noi insegnanti, ci dobbiamo impegnare di più per trovare un equilibrio tra l’intrattenimento fine a sé stesso e la rappresentazione autentica e rispettosa della danza come forma d’arte.
Non è una cosa semplice! Anche perché il primo “passo” dovrebbe essere la formazione non solo tecnica ma anche culturale della storia della danza. L’utilizzo delle piattaforme digitali per “vedere” la danza è senza dubbio uno strumento prezioso. Le porto un esempio concreto: online si possono trovare le variazioni di tutti i grandi balletti, che io stesso utilizzo come supporto per approfondire lo studio delle coreografie e come fonte d’ispirazione per perfezionare l’interpretazione dei miei allievi.
Gli insegnanti di danza devono trovare modi per integrare la tecnologia nei metodi didattici, creando appunto un binomio tra tradizione e innovazione.
Ciò potrebbe rendere la danza più interessante per le nuove generazioni, ma richiede un attento bilanciamento tra l’uso della tecnologia e l’insegnamento della tradizione, che non si limita solo al precetto della tecnica ma anche nel trasmettere quella passione che ti porta al lirismo dell’interpretazione, senza il quale una qualunque variazione rimane svuotata da quel pathos che la caratterizza.
La danza è una forma d’arte e cultura che, per poter sopravvivere e prosperare, necessita del sostegno delle nostre istituzioni. Qual è il contesto in cui questa realtà viene vissuta oggi?
La danza è spesso trascurata rispetto ad altre forme d’arte, come il cinema ad esempio, in Italia c’è una mancanza di supporto, solo il 2% dei fondi culturali è destinato alla danza; quindi, insufficiente e necessita di riforme significative per garantire un futuro sostenibile per i ballerini e le compagnie di danza.
In confronto ad altri paesi come Germania, Francia e soprattutto Russia, l’Italia sembra avere un sistema di supporto molto meno robusto. In questi paesi, ci sono più opportunità e una maggiore valorizzazione della danza come forma d’arte, il che contribuisce a una cultura della danza più forte, rispettata e diffusa.
Sarebbe fondamentale aumentare i fondi e migliorare le condizioni di lavoro per i ballerini, affinché possano dedicarsi seriamente alla loro arte senza dover affrontare difficoltà economiche.
L’incentivo statale per la danza in Italia è attualmente insufficiente e necessita di riforme significative per garantire un futuro sostenibile per i ballerini e le compagnie di danza.
Si può affermare che un ballerino con cinquant’anni di carriera sia una sorta di “guardiano del tempo” che custodisce non solo il ritmo della musica e la precisione dei movimenti, ma anche una tradizione che si tramanda da secoli?
Nel corso della mia carriera ho lavorato con otto diverse compagnie in tutto il mondo, cambiando diversi teatri. Tuttavia, ciò che accadde negli anni Ottanta, che considero i veri “anni d’oro” della danza, rimane per me un capitolo chiuso. In quel periodo, la danza ha vissuto il suo apice, con figure leggendarie. Ho deciso di mettere da parte quella fase della mia vita, chiudendo simbolicamente una parentesi. Oggi vivo immerso nel contesto attuale, e sebbene talvolta attinga a quelle esperienze passate, le lascio in secondo piano, concentrandomi sulle esigenze del presente.
Mi colloco nel gruppo di personalità come Roberto Fascilla (étoile della Scala dal 1969 al 1982 n.d.r.) e Fulvio Sportiello (custode delle memorie artistiche del padre, Enrico Sportiello, ballerino e coreografo n.d.r.), che rappresentano una sorta di enciclopedia vivente della danza. Anch’io custodisco la “memoria” della cultura del balletto, avendone fatto parte ed essendo cresciuto artisticamente immerso in questo inestimabile patrimonio storico: mi considero più un “custode della memoria”, un concetto intimamente legato allo scorrere del tempo!
Parliamo del futuro, come immagina il prossimo capitolo della sua vita artistica?
Non mi aspetto nulla. Ho avuto la fortuna di vivere molte esperienze fino a oggi, sfidando quella che si potrebbe definire la forbice tra corpo e mente, riuscendo a danzare fino all’età di 52 anni. Per questo motivo, accolgo il tempo che scorre così come viene. Diciamo che ho imparato a gestirlo.
C’è ancora un sogno nel cassetto che vorrebbe realizzare?
Un ballerino danza con i sogni! Il mio cassetto è sempre pieno di sogni, ma sono in momento della vita che mi sento realizzato, anzi riconoscente perché ho avuto molto di più di quanto avrei mai immaginato.
Ho danzato, scritto (è autore della sua biografia Non sola[mente] danza n.d.r.), dipinto, e mi sono anche dedicato al restauro di mobili antichi. Soprattutto, ho una meravigliosa famiglia con cui condivido l’amore per l’arte. Cosa potrei desiderare di più? Mi sento pienamente soddisfatto. E, in ogni caso, l’importante è che nessuno mi rubi il mio cassetto dei sogni!
Quale tra i ruoli che ha interpretato come ballerino sente di averle dato di più, sia a livello artistico sia personale?
Senza dubbio, il ruolo di Tebaldo in Romeo e Giulietta nella versione di Kenneth MacMillan, messo in scena alla Scala nel 1991, è stato un ruolo che mi ha dato tanto. Del resto, sono di Verona!
E così come Shakespeare ci ricorda, la vita è un palcoscenico, e ogni ruolo che interpretiamo lascia un’impronta nell’anima.
Maurizio Tamellini, in cinquant’anni di danza, ha vissuto ogni “entrata” con la grazia di chi conosce l’arte del movimento e ogni “uscita” con la consapevolezza del tempo che scorre.
Tebaldo, nella sua Verona, è stato uno dei tanti capitoli, ma il suo viaggio continua, perché l’arte, come il tempo, non si ferma mai, e nel cassetto, i sogni sono ancora pronti a danzare.
Immagine di copertina: 1985 Yerma – Luciana Savignano e Maurizio Tamellini – Courtesy Maurizio Tamellini
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