In un mondo governato dal delirio algoritmico, dal lavoro che ci consuma e dall’industria che permea ogni respiro, arriva il MAST Photography Grant 2025.
Non aspettatevi le solite immagini nostalgiche di fabbriche fumanti e operai con tute logore: qui ci sono ferite aperte, storie di resistenza, frammenti di vita e, soprattutto, la presa di coscienza che siamo tutti intrappolati nel grande ingranaggio industriale.
Questa mostra, curata con eleganza da Urs Stahel, non fa sconti. Ti sbatte in faccia verità complesse: l’industria non è solo il luogo dove produciamo, ma un’entità che ha invaso le nostre menti, i nostri desideri, i nostri corpi. È una piovra tentacolare che ci definisce, che ci aliena. E allora cosa fa l’arte? Cerca di liberarsi, prova a raccontare le crepe di questo sistema, lì dove forse intravediamo ancora qualche spiraglio di umanità.
Prendete Kai Wasikowski. Parte dalla storia personale della nonna, emigrata dalla Polonia all’Australia negli anni ’70 per poi arenarsi in un mercato del lavoro che la escludeva sistematicamente. L’arte di Kai è un gesto di riscatto: rende visibili quelle vite che si dissolvono nella macchina del capitale globale, dando valore al lavoro invisibile del quotidiano.
Poi c’è Sheida Soleimani, la ribelle. In Flyways, sovrappone due mondi apparentemente lontanissimi: la lotta delle donne iraniane del movimento Donna, Vita, Libertà e gli uccelli migratori che si schiantano contro le vetrate delle nostre città. La sua clinica per uccelli a Providence è un monumento vivente contro il disastro ecologico provocato dall’uomo. Soleimani ti guarda dritto negli occhi e dice: “L’industria uccide, ma noi possiamo riparare.”
Silvia Rosi, invece, fa parlare i tessuti wax africani. In Europa li vediamo come fantasie esotiche, ma dietro quei motivi ci sono le storie delle Nana Benz, donne d’affari togolesi che hanno sfidato il potere coloniale, nascondendo messaggi per la resistenza nei loro tessuti. Con i suoi autoritratti, Silvia riscrive la narrazione storica: non più donne marginali, ma protagoniste potenti.
E poi c’è Gosette Lubondo, che ti trascina nelle fabbriche abbandonate del Congo. Qui il tempo è rimasto sospeso tra la gioia per la liberazione dal colonialismo e la malinconia per le industrie perdute. Lubondo inscena un teatro della memoria dove il passato incontra un presente che non sa bene cosa fare di sé.
Felicity Hammond chiude il cerchio con Autonomous Body, un’opera feroce che analizza il ciclo di vita dell’automobile, dalla miniera alla macchina. Le sue sculture assemblano materiali industriali in forme disturbanti che riflettono il modo in cui l’industria automobilistica, ieri simbolo di progresso, oggi divora risorse e vite.
Cosa ci dice tutto questo? Che siamo ancora qui, ingabbiati nelle spire dell’industria, globalizzati, digitalizzati, trasformati noi stessi in prodotti. Ma anche che l’arte è il luogo in cui possiamo ancora immaginare vie di fuga. Gli artisti del MAST Photography Grant non offrono soluzioni semplici. Ma ci ricordano una cosa fondamentale: per liberarci, dobbiamo prima vedere ciò che ci tiene prigionieri.
E forse, se guardiamo abbastanza a lungo, possiamo immaginare un modo per scappare.
MAST PHOTOGRAPHY GRANT ON INDUSTRY AND WORK 2025
Ottava edizione
A cura di Urs Stahel
30 gennaio 2025 – 04 maggio 2025
MAST.Gallery – Via Speranza 42, Bologna
Immagine di copertina: MAST PHOTOGRAPHY GRANT ON INDUSTRY AND WORK 2025, exhibition view, 2025 – Courtesy MAST.Gallery
Abbonati qui ad ArteiN per poter accedere ai contenuti esclusivi!