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Nel cuore della materia: il labirinto segreto di Arnaldo Pomodoro

Labirinto Arnaldo Pomodoro ph.Andrès Juan Suarez Courtesy of Fondazione Arnaldo Pomodoro
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Ci sono opere che si guardano. E poi ci sono opere che si attraversano. Il Labirinto di Arnaldo Pomodoro, nascosto nei sotterranei di via Solari 35 a Milano, appartiene alla seconda categoria. Realizzato tra la fine degli anni Novanta e il 2011, ha vissuto per anni in una condizione sospesa: chiuso, invisibile, inaccessibile.

Oggi, grazie alla collaborazione tra Fendi e la Fondazione Arnaldo Pomodoro, è di nuovo visitabile, restituendo alla città un pezzo importante della sua memoria artistica.

Il labirinto nasce da un’intuizione scenografica: nel 1995, Pomodoro riceve l’incarico di progettare una scenografia ispirata all’epopea di Gilgamesh. Il progetto teatrale non si realizzerà mai, ma l’immaginazione dell’artista si deposita in uno spazio mentale che, pochi anni dopo, diventa anche fisico. La fabbrica dismessa Riva-Calzoni, destinata a diventare sede della Fondazione Pomodoro e poi quartier generale di Fendi, offre il luogo perfetto per ospitare un’opera ambientale di 170 metri quadri. Non una scultura da osservare, ma un corpo architettonico da abitare.

L’ingresso è segnato da una citazione incisa: «Amarezza si impadronì del mio animo, la paura della morte mi vinse ed io ora vago per la steppa». È Gilgamesh a parlare, e la frase sembra sospendere il tempo. Da qui si entra in un mondo che sfugge alle categorie canoniche del design e dell’arte contemporanea. Non è una mostra, non è un oggetto. È un’esperienza. Le superfici sono in fiberglass, materiale che Pomodoro aveva già sperimentato negli anni Sessanta, e ogni elemento racconta qualcosa di arcaico e remoto: simboli cuneiformi, rilievi che ricordano tavolette mesopotamiche, graffiature che evocano una lingua dimenticata.

Il labirinto è suddiviso in tre stanze, ciascuna separata da una porta roteante. La loro apertura ha qualcosa di cinematografico, quasi rituale. Si ha la sensazione di entrare in una soglia temporale, in cui il presente non ha più consistenza. Il tempo, qui, diventa spazio.

L’opera è anche un compendio della sua pratica: ci sono echi delle scenografie realizzate per il teatro, come i costumi di Didone e Creonte, ora esposti nell’atrio; ci sono richiami ai suoi gioielli, che assemblava utilizzando la stessa fibra di vetro; e ci sono, ovunque, i segni. Pomodoro li chiamava “tracciati”, e li descriveva come una scrittura impossibile da leggere ma carica di significato.

Nel 2011, con il trasferimento della Fondazione, il labirinto viene chiuso. L’edificio passa a Fendi, che sceglie di non rimuovere l’opera, lasciandola dormiente sotto lo showroom. Per anni ne esiste soltanto il ricordo, quasi un mito urbano per addetti ai lavori. Ora che riapre, non è più solo un’opera d’arte, ma una soglia verso un tempo che ci riguarda, pur non essendo mai stato nostro.

Attraversarlo significa, forse, confrontarsi con domande che non ammettono risposte. Chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando? O, più semplicemente: che traccia lasceremo, una volta usciti?


Info utili:
Il Labirinto è aperto al pubblico esclusivamente su prenotazione, con visite guidate della durata di circa 45 minuti.
Per prenotazioni e maggiori informazioni: fondazionearnaldopomodoro.it


Immagine di copertina: Labirinto Arnaldo Pomodoro, ph. Andrès Juan Suarez – Courtesy of Fondazione Arnaldo Pomodoro 


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