Che un artista debba avere uno studio adeguato non tanto alle sue ambizioni, quanto alle sue reali necessità, è premessa indispensabile per poter definire quello di Gabriele Arruzzo, perfettamente calibrato e a misura dei suoi modi e tempi di lavoro e progettazione.
Questa economia funzionale di studio sembra contrastare con la sua pittura, in apparenza ridondante, eccessiva, manierista, surreale e decadente, almeno a livello iconografico. Appunto in apparenza, perché al fondo non è niente di tutto ciò. Dunque, la misura dello studio corrisponde ai tempi di esecuzione e progettazione.
Gabriele Arruzzo potremmo definirlo un artista di bassa produzione, nel senso che dei suoi formati standard e preferiti (due metri per due) riesce a portarne a termine forse uno al mese, nei momenti di maggior concentrazione, ispirazione e dedizione. Quindi una produzione rara, ma perciò studiata, meditata, calcolata.
Dunque, tutto ciò che sembra in eccesso nelle sue opere non lo è affatto. Arruzzo non lascia niente al caso, progettando l’opera prima su carta, priva di colori ma perfettamente delineata, seguirà poi quel disegno alla lettera. Un disegno che nasce da una sorta di patchwork, collage, con alcune correzioni, di immagini tratte da fonti disparate, trattati scientifici, di storia dell’arte, vecchie incisioni e ogni tipo di iconografia trovata su libri antichi o che possa essere scaricata dal web.
Dunque, il dipinto è sempre preceduto da un tempo dedicato alla ricerca e all’assemblaggio di immagini, secondo scenari ricostruiti che diverranno poi i veri e propri dipinti.
Il suo studio ha l’angolo di ricerca, un tavolo di lavoro (perché i dipinti sono realizzati in orizzontale), due pareti libere espositive e un altro angolo di raccolta materiali (colori e pennelli) utili all’esecuzione, con un piccolo ingresso che fa anche da deposito opere. Il tutto concentrato in circa sessanta metri quadrati.
La stessa efficienza la poteva avere la stanza di lavoro di Bacon al numero 7 di Reece Mews a Londra – il resto era adibito a uso abitativo tra cucina/bagno e stanza da letto con ingresso dal piano terra, salendo una ripida scala – oggi trasportata presso la Hugh Lane City Gallery di Dublino, la sua città natale, che misura appena circa cinquanta metri quadrati! Ma che era uno spazio caotico, irrespirabile e pieno di detriti e scarti di ogni tipo.
Come Bacon però, Gabriele Arruzzo lavora a un dipinto alla volta e ne vede sostanzialmente uno alla volta, perché appena terminato è riposto in attesa della sua destinazione.
E se scriviamo, nel suo caso, “come Bacon” non è per comparare la sua pittura a quella di Bacon (per quanto il metodo parta degli stessi presupposti: un assemblaggio di fotografie o immagini trovate), bensì perché per Arruzzo la figura di Bacon è realmente una stella polare sul suo cammino, essendo un artista di cui conosce alla perfezione opere, vita, morte e pubblicazioni sul suo lavoro, riuscendo a reperire rarissime immagini sul celebre pittore inglese che puntualmente condivide col sottoscritto.
Potremmo chiamarla una felice ossessione, che ci accomuna insieme alle altrettanto regolari visite nello studio di Pesaro, vicino al ponte romano e lungo il verdeggiante fiume Foglia, che da casa mia raggiungo comodamente in bicicletta. La tecnica di Arruzzo è, rispetto a quella di Bacon, meticolosa, chirurgica, lineare, senza incertezze, dove niente è lasciato al caso.
Ipercontemporanea nell’utilizzare acrilici, smalti, glitter e spray, dando vita a racconti distaccati e senza trama, frammenti di visioni ricomposte in storie dall’alto valore simbolico e metaforico, pur senza nessi certi e spiegazioni univoche. Un caos ordinato, potremmo definirlo, come ordinato è quel suo studio a zone separate e comunicanti, in cui tutto sembra tornare alla perfezione.
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